No alle scorciatoie per la Cassazione: il consenso non legittima l’accesso alle chat sullo smartphone
La Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini della validità probatoria in giudizio delle chat di messaggistica, non basta il consenso di chi ha il diritto di disporne. Le garanzie di tutela della riservatezza della corrispondenza, infatti, si estendono “a ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione”.
Come far valere prove atipiche quali “chat” e “screenshot” in giudizio? Cosa si evince dalla sentenza?
Il contesto
Mediante la sentenza n. 1269 del 2025 della Sesta sezione penale, la Corte di Cassazione è stata chiamata ad esprimersi su un caso di “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” (ai sensi dell’Articolo 73, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).
Il ricorrente in Cassazione chiedeva l’annullamento del provvedimento di condanna del giudice di primo grado, già ridotto ad un anno e sei mesi di reclusione dalla Corte di Appello, adducendo le seguenti ragioni:
- l’inutilizzabilità degli screenshot delle chat di WhatApp, in quanto acquisite con modalità illegittime;
- la particolare tenuità del fatto (in considerazione del modesto peso della cocaina sequestrata);
- il limitato profitto derivante dallo spaccio (90 euro) e la collaborazione dell’imputato.
La decisione della Cassazione
La Cassazione ha stabilito che, pur essendo presenti elementi di prova effettivamente acquisiti illegittimamente, questi diventano irrilevanti ed ininfluenti se vi sono altri elementi, legittimi, sufficienti a giustificare la condanna.
In particolare, nel caso di specie, anche senza considerare le chat di WhatApp, la prova della destinazione della sostanza stupefacente allo spaccio emergeva da altre risultanze legittimamente acquisite (il sequestro della sostanza; le modalità di custodia della stessa, suddivisa in più involucri; il rinvenimento di banconote di piccolo taglio accartocciate; etc.).
La Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso e confermato la condanna.
L’utilizzabilità delle chat in giudizio
Sebbene i giudici abbiano complessivamente rigettato il ricorso, ritenendolo infondato, con riferimento alla messaggistica e agli screenshot acquisiti hanno confermato la fondatezza dell’eccepita illegittimità della prova. La decisione risulta, pertanto, particolarmente interessante in quanto la Corte ha rimarcato e formalizzato importanti considerazioni in merito alle corrette modalità di acquisizione delle prove e all’utilizzabilità di chat e screenshot in giudizio.
In sostanza, la Corte ha confermato che le chat estrapolate dallo smartphone in possesso dell’imputato mediante screenshot, senza che sia stato disposto il sequestro del dispositivo, non costituiscono una prova valida. Il fatto che l’acquisizione sia avvenuta previo consenso dell’interessato non influisce sull’(in)utilizzabilità della prova.
Libertà e segretezza della corrispondenza elettronica devono essere garantite
Nel confermare l’inutilizzabilità delle chat, la Corte ha richiamato la precedente sentenza n. 170 del 7 giugno 2023 che ha esteso le garanzie di salvaguardia del diritto alla riservatezza dei dati archiviati sulla memoria di un telefono cellulare, anche alle comunicazioni non più in itinere ma acquisite dopo la ricezione da parte del destinatario. Nello specifico, la Cassazione afferma che la tutela della libertà e della riservatezza, costituzionalmente garantita, si estende “a ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici” e può essere limitata “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria”.
Il sequestro della corrispondenza
Il sacrificio della libertà e della riservatezza della corrispondenza elettronica, pertanto, richiede l’applicazione della disciplina prevista dall’articolo 254 del Codice di Procedura Penale (“Sequestro di corrispondenza”), il quale, in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, prevede chiari limiti al potere di acquisire elementi probatori da parte della Polizia giudiziaria (fra cui la messaggistica archiviata sullo smartphone). La raccolta di questa tipologia di evidenze deve avvenire nel rispetto di determinate condizioni.
Il secondo comma del citato articolo 254, infatti, prevede che “Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all’autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli o alterarli e senza prendere altrimenti conoscenza del loro contenuto”. La Polizia giudiziaria, quindi, deve limitarsi ad acquisire fisicamente il dispositivo: solo l’Autorità giudiziaria potrà disporre l’accesso ai contenuti del cellulare e ai messaggi / chat.
Nessuna scorciatoia: il consenso non basta
Nel caso in esame, l’accesso al dispositivo è stato effettuato direttamente dalla Polizia giudiziaria. La Polizia ha deciso, in assenza di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, di richiedere il consenso del soggetto interessato. L’interessato ha acconsentito a sbloccare lo smartphone e la Polizia ha potuto acquisire rilievi fotografici (screenshot) delle chat di Whatsapp.
La Cassazione ha chiarito che:
- nemmeno il consenso dell’interessato può supplire alla carenza di un provvedimento giudiziario che autorizzi l’accesso;
- la Polizia giudiziaria avrebbe dovuto procedere al sequestro del telefono senza accedere ai relativi contenuti prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero;
- “non è consentito alla Polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi dalle previsioni legislative per compiere atti atipici [l’acquisizione di prove con modalità alternative, n.d.r.], i quali, permettendo di conseguire risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con atti tipici, eludano tuttavia le garanzia costituzionali dettate dalla legge a questi ultimi”;
- la Polizia giudiziaria avrebbe dovuto informare l’interessato in merito alle facoltà difensive a questi spettanti, compresa la facoltà di rifiutare la collaborazione richiesta ed il diritto di essere assistito da un difensore.
Pronunce come quella esaminata oggi, oltre a costituire un importante precedente giurisprudenziale, forniscono utili chiarimenti in merito alla validità e ai limiti del consenso, strumento spesso oggetto di un uso-abuso.